lunedì 20 luglio 2009

Asimmetrica


Se ne sta seduto su di una panca di legno. Povero cucciolo: sembra così indifeso, così depresso. Non parla con nessuno e scruta stranito le sue ciabatte. E’ un ragazzino, avrà sette anni al massimo e già si isola nell’ipocondria, fingendo una serenità ottusa, tipica di chi sta vivendo un attimo in un luogo parallelo, lontano mille fobie dai piccoli atleti che, ridendo giulivi, fanno stretching e scaldano i muscoli. Quel bamboccio, purtroppo, sei tu (ebbene si, proprio tu). E te ne stai contratto, rigido, circospetto. Da sei mesi consecutivi vieni in piscina per allenarti. Ti tuffi nella vasca, obbedisci agli ordini dell’Istruttore. Entri negli spogliatoi dove gli Adulti insaponano i loro glandi lucidi sotto le docce, asciughi i capelli e guardi i sessi sonnambuli scodinzolare tra le gambe glabre, infine torni a casa turbato. Anche oggi sei preoccupato, ma per un altro motivo. Oggi è il grande giorno: il giorno del torneo dilettantistico della Federazione Rari Nantes. L’acqua smorta vibra ai tuoi piedi mentre osservi da lontano gli spalti della Piscina Comunale brulicanti di presenze che avverti ostili. Tra le tante facce di viscosa in fila ti soffermi sul volto gonfio di un Uomo con un pastrano color senape, il baffo spavaldo, i radi capelli canuti. Quell’Uomo (lo conosci bene, o almeno credi, non puoi sbagliarti!) è tuo padre. Al suo fianco una Donna con la borsetta di coccodrillo, rossetto ocra sulle labbra sterrate, un pellicciotto con le zampette di volpe imbalsamate e le gote incipriate. Eccoli là. Li guardi ancora (e tremi). Tremi perché potresti deluderli. Non sei certo tra i migliori (ammettilo: è per questo che sei teso e ti scappa la pipì), ma l’Istruttore, un Adone moro dai pettorali scolpiti ed i lineamenti bronzei, ti ha imposto di partecipare al torneo. Ovviamente non ti sei ribellato. Ma avresti voluto, visto che uno dei ricordi più inenarrabili della tua infanzia è legato proprio al suo latrato iracondo. Già, non lo potrai mai dimenticare: galleggiavi immobile, in verticale, aggrappato al cordolo di piccole boe rosse e blu. Avevi un crampo e non riuscivi più a nuotare. – Perché ti sei fermato?- urlò l’Istruttore. – Ho un crampo- miagolasti tra le lacrime di cloro. – Non dire fesserie, muoviti, forza! – Ma non ci riesco… – Niente piagnistei nella mia corsia, tra un mese ci sarà il torneo e se ti fermi verrai eliminato. Muoviti bamboccio, e non guardarmi con quella faccia da fesso. La faccia da fesso l’hai ereditata da tua nonna (un tempo proprietaria del pellicciotto di volpe che indossa tua madre). Il dentista di famiglia dice che la tua faccia di fesso, in verità, non è altro che una banalissima malocclusione di terza classe con un forte divario sagittale tra l’arcata superiore e quella inferiore. A scuola ti umiliano: i tuoi amichetti ti chiamano Dracula, Frankestein o Jiggen. Faccia di fesso, bontà sua, è il nickname che l’Istruttore di nuoto ha scelto per te tra milioni di combinazioni possibili (poteva anche andare peggio). Ora scruti proprio lui. Se ne sta seduto al centro del tavolo della giuria sul quale splendono tante medagliette placcate in oro. Ai bordi della piscina, i tuoi coetanei scherzano chiassosi per seppellire con le risa l’ansia da prestazione. Sugli spalti, imbellettati neanche fosse domenica di Quaresima, ci sono zii, cugini, genitori divorziati, assistenti sociali, tutor del Tribunale dei Minori e nonnine incartapecorite. Tra loro, tuo padre e tua madre. Eviti di guardarli (non puoi, non ora. E poi ti scappa pure la pipì). Te ne stai seduto sullo spigolo della panca di legno e fissi le ciabatte infradito mentre accarezzi la cintura dell’accappatoio. Ti senti un radicale libero al 41 bis. Un vetro rotto della ex Saint Gobain. Un bamboccio, forse. – Buona sera a tutti. Mi chiamo Casimiro, l’Istruttore, e voglio darvi il benvenuto al torneo di nuoto dalla Federazione Rari Nantes. Iniziamo subito con la prima gara: si preparino X, Y, Z, H, J, W…- I prescelti si spogliano mostrando con orgoglio i loro fisici asciutti e le mandibole perfettamente simmetriche. Scalciano via le ciabatte e scattano come antilopi verso il bordo della vasca, dove si erge un muretto di mattoncini blu che funge da trampolino comune. I piccoli atleti balilla molleggiano spavaldi sulle gambe, flettono e piegano in sincrono le braccia. Si accovacciano sulle ginocchia e quando l’Istruttore fischia, guizzando, si tuffano. Dagli spalti si diffonde un tintinnio di applausi. I flash delle macchine fotografiche saettano mentre i padri si grattano gli ascessi di psoriasi. Le mamme gagliarde invocano i nomi dei loro prodi gladiatori, i bimbi nei passeggini bestemmiano. Parenti, vicini di casa, conoscenti ed occasionali sostenitori battono le mani saltellanti. I nuotatori in gara, invece, fendono ritmici l’acqua, spingendo all’indietro le braccia e battendo le gambe dall’alto in basso (non contemporaneamente, nota bene, senza alcuna restrizione di simmetria). Neanche a metà vasca la Vittoria (infame e tiranna) ha già benedetto l’atleta della prima corsia che con pochi crawls sfascia la fiacca concorrenza. In meno di un minuto il Vincente raggiunge il bordo opposto della piscina e si aggiudica il diritto di sbeffeggiare il secondo e picchiare a sangue il terzo. Guadagnata la terraferma, umido e lucido, si toglie gli occhialini della Nike e li fa volteggiare nel pugno chiuso roteandoli al cielo (lo invidi, ammettilo). Cerca con lo sguardo i suoi genitori, che commossi applaudono in piedi. L’Istruttore lo chiama per nome e lo invita sul palco, gli stringe la mano e gli infila la medaglia d’oro al collo (e tu rosichi, dio mio, quanto rosichi). L’Istruttore sorride fraterno al Numero Uno. Tu, piangendo di nascosto, non desideri altro se non quel sorriso. Attendi immobile da oltre due ore. Sei sempre lì (seduto sul bordo della panca a pochi passi dall’acqua smunta) che esamini triste le ciabatte scolorite (e masturbi la cintura mogia dell’accappatoio). Hai voglia di pisciare (senti la vescica scoppiare, l’implosione è imminente) ma non vai in bagno per paura che Casimiro l’Adone mastichi e sputi via il tuo nome (probabilmente hai persino una allucinazione uditiva. Ti sembra di sentire una voce: Antonio… Antonio… ANTO’!). Ti accorgi così che l’Uomo col pastrano color senape ti sta chiamando (che diavolo vuole?!). Cammini in trance verso gli spalti, stringendo le gambe per non allentare la pressione sulla vescica ormai satura. Tuo padre si appoggia alla ringhiera e comanda. – Ma quando viene il tuo turno? Va a chiedere all’Istruttore, muoviti! Così è. Con passo mesto raggiungi il tavolo della giuria. – Scusi signor Casimiro ma quando tocca a me? – E tu chi sei, come ti chiami? – Antonio Zagaria – ammetti timido. – Fammi controllare. Zagaria, Zagaria, Zagaria…No, qui non risulta che tu sia in gara – dice mentre sfoglia la pagina di una sorta di registro in cui sono elencati i nomi dei partecipanti al torneo. – Come è possibile?- balbetti – forse lei non si ricorda di me…sono quello… – Ahhhh, si, si, quello del crampo. Aspetta, vediamo che possiamo fare. Dunque, c’è un’altra batteria da dieci, l’ultima, puoi partecipare a questa se proprio insisti. Dorso senza braccia. – Come? – Che non ci senti, faccia di fesso? Ho detto dorso senza braccia. E ora vai via che ho da fare. Annuisci e strisci verso gli spalti a gambe strette (oddio, un bagno, ti serve, e subito). Poi spieghi tutto a tuo padre che torna a sedersi al suo posto senza neanche salutarti. – Siamo quindi giunti all’ultima gara. Si preparino gli atleti, X, Y, Z, H, W, Zagaria, J -. (Ci siamo campione). Tremando ti liberi dell’accappatoio di spugna e getti via le ciabatte. Non vedi l’ora di confonderti nell’acqua (della competizione non ti importa granché direi, hai solo voglia di pisciare) e monti sul muretto che funge da trampolino. Guardi dritto davanti a te. Oltre le lenti appannate degli occhialini, a cinquanta metri di distanza, c’è l’agognata meta, l’Asmodea (o visione fantastica, di Francisco Y Lucientes Goya). La frontiera tra mito e realtà coi mattoncini blu dove brilla tra le piccole onde increspate la radiosa Vittoria. Sei solo e ti fai forza. Provi a sgombrare la paura dalla tua fronte madida: niente malocclusione asimmetrica, niente pellicciotti. Non c’è nessuno intorno a te, né sugli spalti né ai bordi delle altre nove corsie. Non guardi neppure gli altri concorrenti che sono al tuo fianco. Ti concentri (e pensi solo alla vescica che si arrovella su sé stessa come un torchio). Resetti dalla mente il baffo (spavaldo) di tuo padre. I sessi (lucidi) negli spogliatoi. I pettorali (bronzei) dell’Istruttore. Ci sei solo tu ed il dorso senza braccia. Dovrai nuotare in posizione orizzontale, la più idrodinamica possibile. Dovrai far mulinare le gambe senza sprecare energie. Senza ansia di prestazione, altrimenti saranno crampi. Attendi. Vibri. Respiri piano. Poi il suono del fischio dell’Istruttore e la nevrastenia che si liofilizza. Ti tuffi, sei in acqua. Sembra quasi placenta. Un guizzo di gelo, la pelle si raggrinza, ti giri in apnea, cacci l’aria dai polmoni che si condensa in grandi bolle sottomarine, riaffiori, inspiri un’overdose di ossigeno e ti stendi, ti espandi in orizzontale, con le braccia ben tese sui fianchi, sbatti le gambe che ora sono pinne mentre si svuota finalmente la vescica, e per questo, e solo per questo, godi impertinente ammirando il soffitto della Piscina Comunale scorrere via veloce e giulivo e gagliardo. Non cerchi applausi (non ne hai bisogno, forza). Non pensi a nulla (sei il migliore, dai). Non sogni la gloria (sai che noia). Sai solo che se continui così, a ritmo, senza farti assalire dalla frenesia, non ti verrà nessun crampo (ecco, nuota veloce, impavido, bravo, forza, avanti e ancora avanti, non fermarti mai. Crepi il dentista di famiglia, il Vincente e l’Istruttore). Gli attimi si dimenano voluttuosi. Sembra quasi che questa vasca contenga tutta la tua vita, sangue e piscio, e che l’acqua sia in ebollizione. Ad un tratto la tua testa si schianta contro un corpo solido. Il dolore della collisione ti rapisce. E’ il muro della meta, traguardo ultraterreno. Sia come sia, è finita. O dio mio, o dio dio dio dio…Che tu sia lodato in eterno nei secoli dei secoli amen. Primo…sei arrivato primo…Ma ti rendi conto? Sei il numero uno. Ora puoi sbeffeggiare il secondo, sei autorizzato a sputare in faccia al terzo. Sorridi e urli di gioia. Ti giri verso gli spalti, verso i tuoi genitori, ti liberi degli occhialini e li sventoli al cielo in segno di vittoria. Eppure, nonostante l’insindacabile trionfo agonistico, tuo padre e tua madre restano immobili, costipati al loro posto, senza sbattere le mani e saltellare per la felicità. Sei in default. Non capisci cosa accade. Il tuo sorriso di giubilo si smagnetizza. E allora ti volti di scatto e ti accorgi che i piccoli atleti balilla sono ancora lontani. Il secondo impiega mezzo minuto per raggiungere l’altra sponda della vasca, quella dove tu attendi triste, aggrappato al cordolo di boe rosse e blu. Quando sbatte con la testa vicino al muretto, il Secondo, sporco e infame, sputa l’acqua neanche fosse uno di quelle fontane con i tritoni nel Parco della Reggia, si libera dagli occhialini e dalla cuffia, tiene le palpebre serrate e digrigna i denti in modo sinistro. I lineamenti del suo viso sono irregolari. Lui non è una Classe Terza ma c’è pur sempre qualcosa che non va, qualcosa che ti sfugge. Il cloro rende tutto più evanescente, indefinito. La sua fronte è bombata, gli occhi roteano scoordinati, la lingua sguscia dal labbro leporino. Eppure ride sornione. Quando i vostri sguardi si incrociano lui emette un suono disarticolato che ti rende inquieto. Ti strizzi gli occhi con le dita, osservi meglio e capisci: il piccolo atleta balilla è un bimbo Down. Quando arriva il terzo, l’intuizione si fa certezza: anche lui è un down. E così il quarto, il quinto… Ora è tutto chiaro. I tuoi genitori, come te, sono pietrificati dalla vergogna: la loro terza classe con malocclusione asimmetrica, la loro faccia di fesso, ha vinto un gara di nuoto per soli down. Ecco perché nessuno applaude, nessuno ride. Solo l’Istruttore ride. Ride di te, bamboccio.

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