lunedì 20 luglio 2009

Città Marziale




Bevo un caffè, accendo una sigaretta ed esco. La notte affonda. A quest’ora Caserta è frigida, spettrale.



Solo quando vago così, senza meta, in solitudine, tollero la monotonia dei suoi palazzi. Cemento armato, livido, cemento indifeso, sanguigno. Cemento come placenta per una città orfana di storia. Dovrei lasciare sui muri che rasento lunghe strisce di vernice nera, piccoli graffiti di fuoco tra i mattoni. Niente lettere, né parole. Dovrei seppellire fogli e penne blu. Tutti i miei moleskine sotto terra, innaffiarli poi con la mia stessa urina e non aspettarmi nulla di meglio dalla vita. Nel frattempo, cammino a testa bassa in via Roma. Tremo al freddo che massaggia la pelle. Osservo le insegne spente delle rosticcerie e le saracinesche chiude dei bar. Via Roma è un cordone ombelicale rescisso dalla Grande Madre Reggia. Se non fosse la parallela di Corso Trieste, che sbuca proprio di fronte al Palazzo Reale, questa strada non avrebbe senso. Una strada siamese, quasi ripudiata. Ed è qui che la notte io cerco la scintilla. Sono fermo, da settimane, da mesi, schiavo del foglio bianco, e quando provo ad iniziare il mio primo romanzo la penna mi scivola dalla mano, rotea sul tavolo e poi cade sul tappeto. Ci provo e fallisco, ci ritento e me ne pento. E’ tutto inutile: non ho nulla da narrare. Chi legge i miei racconti dice: troppo frivolo, poco limpido, assai scurrile, tremendamente egocentrico. Cammino in via Roma da solo perché adoro il Palazzo dell’ex Ina, quello progettato da Davide Pankowski. Al confronto, la Camera di Commercio e l’Istituto dei Salesiani sono delle catapecchie di stucchi rosè. La simmetria regia delle loro facciate è fuori luogo in questa città di mattoncini rossi. Il palazzo dell’ex Ina è un vagone piombato che corre a centoventi miglia orarie verso il passo di Dukla, nei Carpazi. E allora giro per via Daniele, e salgo su per via Renella, senza neppure guardare Villa Vitrone (il Liberty rende eunuchi). Amo solo l’ex Ina perché assomiglia ad una catasta di libri. Io leggo Marilena Lucente, Massimiliano Palmese, Agota Krystof. Ma non sopporto Francesco Piccolo o Antonio Pascale. Se non leggo, io scrivo. Mai una riga su di me, su chi sono e cosa penso. Scrivo dei pennacchi di fumo che escono dagli Altiforni della Cementir, e della nube di Polveri Sottili che inghiotte la Montagna di San Michele, divorata dal Drago Edile. Narro degli amori molesti di pantegane che si incontrano qui, davanti a questo cumulo di immondizia ricoperta dalla calce per evitare che il fetore disturbi le nari degli ignavi passanti. Racconto di stormi di vampiri che migrano dalla Transilvania alla Saint Gobain, dove si riposano prima di sferrare l’attacco finale, in attesa che spunti la luna piena. Scrivo solo di questa città. E di chi la vive. I Casertani li osservo spesso. Parlano al cellulare e inciampano. Sgommano ai semafori e bestemmiano. Si fanno il segno della croce e fumano. Sculacciano i bambini e succhiano. Sempre al telefono cellulare, iperattivi, sensibili ai campi magnetici. Sarà un caso, ma da quando scrivo di lei, di Caserta, e di loro, dei casertani, ho ridotto la mia vita sociale al minimo. Mi riservo solo delle passeggiate notturne, da via Roma in via Renella, salendo su, oltre piazza Sant’Anna, fino alla Stazione, dove mi aspetta il mio Unico Amico. Sul muretto che sbuca da via Verdi, un clochard polacco sventra e lecca un cartone di Tavernello. Poco più in là, sotto una pensilina arrugginita, due tassisti giocano a scala quaranta in attesa di un cliente, magari un turista, che non arriva e non arriverà mai. Si avvicina loro Giuseppe Coca-Cola, eroinomane di lungo corso, che chiede una sigaretta. Lo guardo avvilito, ormai è quattro ossa più due etti di carne e mezzo litro di sangue. Un colpo di clacson lo spezzerebbe in due. Tre enormi buchi di siringa sul collo sono ricoperti di pustole e scaglie di carne cianotica.







Giuseppe vaga senza meta in questa città senza storie e come lui, anche Eva Hop e Caterina. Si trascinano da quelle parti con la busta della spesa al braccio, in cerca di maschi da svuotare per dieci euro. Un tempo erano bellissime, ora sono grasse e rugose e camminano sempre insieme, quasi fianco a fianco, per paura di essere pestate a sangue dal solito violento. Geremia è un violento. Fa il parcheggiatore, anche di notte, quando nello spiazzale della stazione non ci sono auto se non quelle bianche dei tassinari.
Ai suoi pochi clienti chiede sempre tre euro, e se qualcuno si lamenta scompaiono i cerchioni, si graffiano le scocche, si spezzano i tergicristalli.
Quando è ubriaco, si diverte a picchiare Eva. Un tempo erano amanti, ma poi l’alcol, le marchette, i denti cariati, i Tribunali dei minori, le carezze che diventano percosse, il cappio invisibile che questa città di mette al collo se cerchi aiuto. Geremia è il padre di tutti i lividi sulla schiena di Eva. E quando lei passa, lui la chiama puttana, sghignazzando.
Ma la vera puttana di Piazza Ferrovia, è Marco. Chissà perché è qui: sempre ben vestito, occhiali puliti, pantaloni stirati, maglioncini lindi.
Si dice che studi al Liceo Giannone e che sia bravo soprattutto in greco. Leggende, forse.
Di sicuro, Marco ti combina di tutto, nel bagno della stazione, per pochi spicci, alle volte anche gratis. Lo fa con passione, con rabbia. E’ bravissimo. L’amante perfetto: educato, gioviale, pulito. Anche se la barba folta con venature di rame e i capelli ricci perennemente arruffati lo rendono inquietante. Eppure, nonostante le sue doti, non ha molta fortuna tra gli erotomani notturni in cerca di sesso alla Stazione di Caserta. Forse usa la tecnica sbagliata.
Marco segue le persone che vanno verso il bagno dei maschi, con discrezione, a cinque metri di distanza. Poi, quando il viandante entra nella toilet, lui si piazza nell’altra cabina a fianco. Sale sul water e si affaccia per guardare l’uomo pisciare.
Capita che incontri l’omofobo che urla stizzito, il mazzonaro che ancora con la patta aperta gli molla un pugno in faccia, o il padre di famiglia impomatato che non fa resistenza, e che mentre eiacula, s’innamora del mio Unico Amico.





Biancaneve


Asimmetrica


Se ne sta seduto su di una panca di legno. Povero cucciolo: sembra così indifeso, così depresso. Non parla con nessuno e scruta stranito le sue ciabatte. E’ un ragazzino, avrà sette anni al massimo e già si isola nell’ipocondria, fingendo una serenità ottusa, tipica di chi sta vivendo un attimo in un luogo parallelo, lontano mille fobie dai piccoli atleti che, ridendo giulivi, fanno stretching e scaldano i muscoli. Quel bamboccio, purtroppo, sei tu (ebbene si, proprio tu). E te ne stai contratto, rigido, circospetto. Da sei mesi consecutivi vieni in piscina per allenarti. Ti tuffi nella vasca, obbedisci agli ordini dell’Istruttore. Entri negli spogliatoi dove gli Adulti insaponano i loro glandi lucidi sotto le docce, asciughi i capelli e guardi i sessi sonnambuli scodinzolare tra le gambe glabre, infine torni a casa turbato. Anche oggi sei preoccupato, ma per un altro motivo. Oggi è il grande giorno: il giorno del torneo dilettantistico della Federazione Rari Nantes. L’acqua smorta vibra ai tuoi piedi mentre osservi da lontano gli spalti della Piscina Comunale brulicanti di presenze che avverti ostili. Tra le tante facce di viscosa in fila ti soffermi sul volto gonfio di un Uomo con un pastrano color senape, il baffo spavaldo, i radi capelli canuti. Quell’Uomo (lo conosci bene, o almeno credi, non puoi sbagliarti!) è tuo padre. Al suo fianco una Donna con la borsetta di coccodrillo, rossetto ocra sulle labbra sterrate, un pellicciotto con le zampette di volpe imbalsamate e le gote incipriate. Eccoli là. Li guardi ancora (e tremi). Tremi perché potresti deluderli. Non sei certo tra i migliori (ammettilo: è per questo che sei teso e ti scappa la pipì), ma l’Istruttore, un Adone moro dai pettorali scolpiti ed i lineamenti bronzei, ti ha imposto di partecipare al torneo. Ovviamente non ti sei ribellato. Ma avresti voluto, visto che uno dei ricordi più inenarrabili della tua infanzia è legato proprio al suo latrato iracondo. Già, non lo potrai mai dimenticare: galleggiavi immobile, in verticale, aggrappato al cordolo di piccole boe rosse e blu. Avevi un crampo e non riuscivi più a nuotare. – Perché ti sei fermato?- urlò l’Istruttore. – Ho un crampo- miagolasti tra le lacrime di cloro. – Non dire fesserie, muoviti, forza! – Ma non ci riesco… – Niente piagnistei nella mia corsia, tra un mese ci sarà il torneo e se ti fermi verrai eliminato. Muoviti bamboccio, e non guardarmi con quella faccia da fesso. La faccia da fesso l’hai ereditata da tua nonna (un tempo proprietaria del pellicciotto di volpe che indossa tua madre). Il dentista di famiglia dice che la tua faccia di fesso, in verità, non è altro che una banalissima malocclusione di terza classe con un forte divario sagittale tra l’arcata superiore e quella inferiore. A scuola ti umiliano: i tuoi amichetti ti chiamano Dracula, Frankestein o Jiggen. Faccia di fesso, bontà sua, è il nickname che l’Istruttore di nuoto ha scelto per te tra milioni di combinazioni possibili (poteva anche andare peggio). Ora scruti proprio lui. Se ne sta seduto al centro del tavolo della giuria sul quale splendono tante medagliette placcate in oro. Ai bordi della piscina, i tuoi coetanei scherzano chiassosi per seppellire con le risa l’ansia da prestazione. Sugli spalti, imbellettati neanche fosse domenica di Quaresima, ci sono zii, cugini, genitori divorziati, assistenti sociali, tutor del Tribunale dei Minori e nonnine incartapecorite. Tra loro, tuo padre e tua madre. Eviti di guardarli (non puoi, non ora. E poi ti scappa pure la pipì). Te ne stai seduto sullo spigolo della panca di legno e fissi le ciabatte infradito mentre accarezzi la cintura dell’accappatoio. Ti senti un radicale libero al 41 bis. Un vetro rotto della ex Saint Gobain. Un bamboccio, forse. – Buona sera a tutti. Mi chiamo Casimiro, l’Istruttore, e voglio darvi il benvenuto al torneo di nuoto dalla Federazione Rari Nantes. Iniziamo subito con la prima gara: si preparino X, Y, Z, H, J, W…- I prescelti si spogliano mostrando con orgoglio i loro fisici asciutti e le mandibole perfettamente simmetriche. Scalciano via le ciabatte e scattano come antilopi verso il bordo della vasca, dove si erge un muretto di mattoncini blu che funge da trampolino comune. I piccoli atleti balilla molleggiano spavaldi sulle gambe, flettono e piegano in sincrono le braccia. Si accovacciano sulle ginocchia e quando l’Istruttore fischia, guizzando, si tuffano. Dagli spalti si diffonde un tintinnio di applausi. I flash delle macchine fotografiche saettano mentre i padri si grattano gli ascessi di psoriasi. Le mamme gagliarde invocano i nomi dei loro prodi gladiatori, i bimbi nei passeggini bestemmiano. Parenti, vicini di casa, conoscenti ed occasionali sostenitori battono le mani saltellanti. I nuotatori in gara, invece, fendono ritmici l’acqua, spingendo all’indietro le braccia e battendo le gambe dall’alto in basso (non contemporaneamente, nota bene, senza alcuna restrizione di simmetria). Neanche a metà vasca la Vittoria (infame e tiranna) ha già benedetto l’atleta della prima corsia che con pochi crawls sfascia la fiacca concorrenza. In meno di un minuto il Vincente raggiunge il bordo opposto della piscina e si aggiudica il diritto di sbeffeggiare il secondo e picchiare a sangue il terzo. Guadagnata la terraferma, umido e lucido, si toglie gli occhialini della Nike e li fa volteggiare nel pugno chiuso roteandoli al cielo (lo invidi, ammettilo). Cerca con lo sguardo i suoi genitori, che commossi applaudono in piedi. L’Istruttore lo chiama per nome e lo invita sul palco, gli stringe la mano e gli infila la medaglia d’oro al collo (e tu rosichi, dio mio, quanto rosichi). L’Istruttore sorride fraterno al Numero Uno. Tu, piangendo di nascosto, non desideri altro se non quel sorriso. Attendi immobile da oltre due ore. Sei sempre lì (seduto sul bordo della panca a pochi passi dall’acqua smunta) che esamini triste le ciabatte scolorite (e masturbi la cintura mogia dell’accappatoio). Hai voglia di pisciare (senti la vescica scoppiare, l’implosione è imminente) ma non vai in bagno per paura che Casimiro l’Adone mastichi e sputi via il tuo nome (probabilmente hai persino una allucinazione uditiva. Ti sembra di sentire una voce: Antonio… Antonio… ANTO’!). Ti accorgi così che l’Uomo col pastrano color senape ti sta chiamando (che diavolo vuole?!). Cammini in trance verso gli spalti, stringendo le gambe per non allentare la pressione sulla vescica ormai satura. Tuo padre si appoggia alla ringhiera e comanda. – Ma quando viene il tuo turno? Va a chiedere all’Istruttore, muoviti! Così è. Con passo mesto raggiungi il tavolo della giuria. – Scusi signor Casimiro ma quando tocca a me? – E tu chi sei, come ti chiami? – Antonio Zagaria – ammetti timido. – Fammi controllare. Zagaria, Zagaria, Zagaria…No, qui non risulta che tu sia in gara – dice mentre sfoglia la pagina di una sorta di registro in cui sono elencati i nomi dei partecipanti al torneo. – Come è possibile?- balbetti – forse lei non si ricorda di me…sono quello… – Ahhhh, si, si, quello del crampo. Aspetta, vediamo che possiamo fare. Dunque, c’è un’altra batteria da dieci, l’ultima, puoi partecipare a questa se proprio insisti. Dorso senza braccia. – Come? – Che non ci senti, faccia di fesso? Ho detto dorso senza braccia. E ora vai via che ho da fare. Annuisci e strisci verso gli spalti a gambe strette (oddio, un bagno, ti serve, e subito). Poi spieghi tutto a tuo padre che torna a sedersi al suo posto senza neanche salutarti. – Siamo quindi giunti all’ultima gara. Si preparino gli atleti, X, Y, Z, H, W, Zagaria, J -. (Ci siamo campione). Tremando ti liberi dell’accappatoio di spugna e getti via le ciabatte. Non vedi l’ora di confonderti nell’acqua (della competizione non ti importa granché direi, hai solo voglia di pisciare) e monti sul muretto che funge da trampolino. Guardi dritto davanti a te. Oltre le lenti appannate degli occhialini, a cinquanta metri di distanza, c’è l’agognata meta, l’Asmodea (o visione fantastica, di Francisco Y Lucientes Goya). La frontiera tra mito e realtà coi mattoncini blu dove brilla tra le piccole onde increspate la radiosa Vittoria. Sei solo e ti fai forza. Provi a sgombrare la paura dalla tua fronte madida: niente malocclusione asimmetrica, niente pellicciotti. Non c’è nessuno intorno a te, né sugli spalti né ai bordi delle altre nove corsie. Non guardi neppure gli altri concorrenti che sono al tuo fianco. Ti concentri (e pensi solo alla vescica che si arrovella su sé stessa come un torchio). Resetti dalla mente il baffo (spavaldo) di tuo padre. I sessi (lucidi) negli spogliatoi. I pettorali (bronzei) dell’Istruttore. Ci sei solo tu ed il dorso senza braccia. Dovrai nuotare in posizione orizzontale, la più idrodinamica possibile. Dovrai far mulinare le gambe senza sprecare energie. Senza ansia di prestazione, altrimenti saranno crampi. Attendi. Vibri. Respiri piano. Poi il suono del fischio dell’Istruttore e la nevrastenia che si liofilizza. Ti tuffi, sei in acqua. Sembra quasi placenta. Un guizzo di gelo, la pelle si raggrinza, ti giri in apnea, cacci l’aria dai polmoni che si condensa in grandi bolle sottomarine, riaffiori, inspiri un’overdose di ossigeno e ti stendi, ti espandi in orizzontale, con le braccia ben tese sui fianchi, sbatti le gambe che ora sono pinne mentre si svuota finalmente la vescica, e per questo, e solo per questo, godi impertinente ammirando il soffitto della Piscina Comunale scorrere via veloce e giulivo e gagliardo. Non cerchi applausi (non ne hai bisogno, forza). Non pensi a nulla (sei il migliore, dai). Non sogni la gloria (sai che noia). Sai solo che se continui così, a ritmo, senza farti assalire dalla frenesia, non ti verrà nessun crampo (ecco, nuota veloce, impavido, bravo, forza, avanti e ancora avanti, non fermarti mai. Crepi il dentista di famiglia, il Vincente e l’Istruttore). Gli attimi si dimenano voluttuosi. Sembra quasi che questa vasca contenga tutta la tua vita, sangue e piscio, e che l’acqua sia in ebollizione. Ad un tratto la tua testa si schianta contro un corpo solido. Il dolore della collisione ti rapisce. E’ il muro della meta, traguardo ultraterreno. Sia come sia, è finita. O dio mio, o dio dio dio dio…Che tu sia lodato in eterno nei secoli dei secoli amen. Primo…sei arrivato primo…Ma ti rendi conto? Sei il numero uno. Ora puoi sbeffeggiare il secondo, sei autorizzato a sputare in faccia al terzo. Sorridi e urli di gioia. Ti giri verso gli spalti, verso i tuoi genitori, ti liberi degli occhialini e li sventoli al cielo in segno di vittoria. Eppure, nonostante l’insindacabile trionfo agonistico, tuo padre e tua madre restano immobili, costipati al loro posto, senza sbattere le mani e saltellare per la felicità. Sei in default. Non capisci cosa accade. Il tuo sorriso di giubilo si smagnetizza. E allora ti volti di scatto e ti accorgi che i piccoli atleti balilla sono ancora lontani. Il secondo impiega mezzo minuto per raggiungere l’altra sponda della vasca, quella dove tu attendi triste, aggrappato al cordolo di boe rosse e blu. Quando sbatte con la testa vicino al muretto, il Secondo, sporco e infame, sputa l’acqua neanche fosse uno di quelle fontane con i tritoni nel Parco della Reggia, si libera dagli occhialini e dalla cuffia, tiene le palpebre serrate e digrigna i denti in modo sinistro. I lineamenti del suo viso sono irregolari. Lui non è una Classe Terza ma c’è pur sempre qualcosa che non va, qualcosa che ti sfugge. Il cloro rende tutto più evanescente, indefinito. La sua fronte è bombata, gli occhi roteano scoordinati, la lingua sguscia dal labbro leporino. Eppure ride sornione. Quando i vostri sguardi si incrociano lui emette un suono disarticolato che ti rende inquieto. Ti strizzi gli occhi con le dita, osservi meglio e capisci: il piccolo atleta balilla è un bimbo Down. Quando arriva il terzo, l’intuizione si fa certezza: anche lui è un down. E così il quarto, il quinto… Ora è tutto chiaro. I tuoi genitori, come te, sono pietrificati dalla vergogna: la loro terza classe con malocclusione asimmetrica, la loro faccia di fesso, ha vinto un gara di nuoto per soli down. Ecco perché nessuno applaude, nessuno ride. Solo l’Istruttore ride. Ride di te, bamboccio.

bon

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